Un racconto di Michele Burgio
Numero di battute: 1627
Ero andato a cogliere fraccoche alla terra rossa. Ero quasi a quello che chiamano l’albero di zu Alongi, perché dice che verso la fine della guerra i tedeschi ci hanno sparato uno del paese. Mentre mi avvicinavo, ho sentito un lamento accuttufato, che pareva un pianto di cuore.
Un gattu stava appinnuto per il collo ad uno dei rami più bassi. Era uno, ed era nico. Loro invece erano tre. Un picciutteddro della cricca teneva in mano un bastone di canna leggera. Detto così pare che non fa male, ma io lo saccio che dipenne con quanta forza cafuddri. E cafuddrava.
Lu gattu si arravugliava tutto, come un filo del telefono, e chianciva che faceva arrizzare i peli delle braccia. A ogni vastunata, chianciva più forte. E gli altri due che arridivano. Uno spettacolo piatuso, che mi venne di fare una cosa sola.
«E cafuddrava.»
Arricolsi da terra un poco di pietruzze puntute, e mi ivu ad ammucciare dietro un muretto basso. Mi misi raso raso che non mi potevano vedere nessuno. Con la mia ciunna di rama d’ulivo iniziai a mirare quelle teste di minchia. Sì, le teste.
La prima pitrata era giusto che la tiravo al pezzo di fango col bastone, e così feci. Pppam! Quello stordì. Mentre gli altri due gli taliavano la testa insangata… Pppam! Pppam! tirai pure a loro. Un cecchino sono. Ora a torcersi erano quei gran cornuti.
Quatto quatto come ero venuto, me ne sciddricai veloce per tutta la lunghezza del muretto e mi misi a correre in mezzo agli alberi. Le teste di minchia rotte si misero a cercarmi, chi di qua e chi di là, ma io ero già lontano.
Quando fu buio e tornai all’albero, il gatto era ancora vivo, ma le fraccoche non si vedevano più.
Michele Burgio (Palermo, 1982) si è laureato in Lettere e per dieci anni si è occupato unicamente di ricerca scientifica. Adesso si guadagna da vivere raccontando la letteratura agli adulti. Scrive da sempre, ma solo da un paio d’anni lo fa in libertà.