Un racconto di Matteo Ruffini
Numero di battute: 2456
Teresa mi guardò, immersa nel silenzio del salone di casa sua. Sedeva non troppo lontano da me e, senza mai alzare il capo, beveva piccoli sorsi di caffè, facendo attenzione a non ustionarsi la lingua. Non poteva dirsi anziana; credo che avesse poco più di sessant’anni. Eppure, quell’appartamento era intriso dell’odore delle case dei vecchi, del brodo di carne che tutti i giorni sobbolliva sul fornello della cucina.
«Roberta arriverà a momenti» disse, guardando l’orologio.
Io le sorrisi con un filo di imbarazzo, senza trovare parole che potessero riempire il silenzio. Poi, per ingannare l’attesa, mescolai rumorosamente il caffè, facendo schioccare il cucchiaio contro la porcellana. L’orologio segnava le nove.
«Lo avete venduto?»
Teresa mi guardò senza capire.
«Il pappagallino» precisai, indicando la gabbia per uccelli che giaceva sul pavimento ricoperta da un lenzuolo pesante.
«No, non l’abbiamo venduto» rispose. Poi, dopo aver abbassato lo sguardo, riprese: «È ancora lì dentro, ma non canta più».
«E non soffre,
sotto il lenzuolo?»
«Al buio?»
Teresa annuì.
«E non soffre, sotto il lenzuolo?»
«Abbiamo sofferto tutti, è giusto che soffra anche lui un poco» disse, guardando di sbieco la gabbia. Poi, si levò in piedi e si versò una seconda tazza di caffè. «Ne vuoi ancora? Roberta dovrebbe arrivare a momenti.»
Comprare quel pappagallo era stata un’idea di Mario, suo marito, il padre di Roberta. L’aveva portato a casa un giorno d’estate, meno di un anno prima. Poi, una settimana dopo, si era schiantato con l’automobile in autostrada; era morto sul colpo.
«Ora non vola nemmeno più. Si è strappato tutte le penne delle ali» riprese Teresa.
«Forse perché sta al buio.»
«Può darsi. Hai detto che non vuoi un altro caffè? Roberta dovrebbe arrivare a momenti.»
Aspettammo ancora qualche minuto; di quando in quando, i sospiri di Teresa interrompevano il silenzio. Poi, senza cercare di intavolare alcun discorso, riprendeva a sorbire il caffè.
«Potreste pensare di venderlo.»
«Il pappagallino?»
«O di liberarlo.»
«Morirebbe presto. È un ricordo, ci sono affezionata.» Poi, ancora silenzio. «Ora ha perso pure le penne delle ali, non vola più.»
«Forse perché sta al buio.»
«Può darsi. Ecco, arriva Roberta.»
E con il capo indicò finalmente la figlia, pronta per uscire. Io, come sempre, mi congedai con sollievo. Uscendo di casa, presi la mano di Roberta e passammo accanto alla gabbia. Avrebbero fatto meglio a venderlo, pensai; o a liberarlo; sarebbe morto presto comunque, in un caso o nell’altro.
Matteo Ruffini è nato a Milano, ha trentadue anni e vive a Berlino. Laureato in Matematica, lavora come ricercatore nel campo dell’intelligenza artificiale.
Questo è il suo primo racconto.