Un racconto di Paolo Leibanti
Numero di battute: 2418
Prima che io gli chieda qualcosa, il vecchio parte a raccontare questa storia di sessant’anni fa.
In quel periodo era una camicia nera, ma ci tiene a precisare che non era uno operativo, era solo una specie di impiegato. Per qualche mese era stato anche al Reparto Confessioni, con il compito di redigere i verbali. Il lavoro fisico, come lo chiama lui, toccava a Fredo e Angelo, che di solito lavoravano solo con le mani e un manico di zappa scheggiato. Raramente ricorrevano anche agli aghi, sotto le unghie, alla corrente sui genitali o alle candele sotto i piedi. Altro non ricorda facessero.
Mi dice che nel loro genere erano bravi, Fredo e Angelo, che non erano bestie che godevano a infliggere sofferenze gratuite: facevano giusto quello che serviva per far parlare gli arrestati, o appena poco di più. Non hanno mai ammazzato nessuno, giura, e quasi tutti quelli che sono passati sotto di loro se la sono cavata con quella che oggi chiamerebbero una prognosi di poche settimane.
«Non hanno
mai ammazzato nessuno, giura.»
Lui, il vecchio, scriveva sul suo tavolino, in disparte, e dopo faceva pulizia: passava lo straccio sul pavimento per togliere sangue e saliva, urina e vomito.
Credeva di avere dimenticato quei giorni, ma da qualche mese ha un incubo ricorrente. Sogna di trovarsi in un ampio seminterrato che puzza di muffa e di pelle bruciata, e c’è Guglielmo con un cappio in mano che gli va incontro piangendo. Il vecchio non ricorda che a Guglielmo avessero fatto troppo male, forse qualche pugno o un dito rovesciato, ma il ragazzo finì per fare il nome di un suo vicino, che fu portato in città e fucilato. Dissero che fu per quella storia che Guglielmo un mese più tardi si appese a una trave del fienile, ma in verità era strano già prima, assicura il vecchio.
Ad ogni modo, il vecchio non dorme più per paura di sognare Guglielmo. Lo so, per noi un peccato vale l’altro, però dopo l’assoluzione nel nome di Dio Padre Misericordioso, mi è scappato di dirgli che la remissione dei peccati non significa la fine degli incubi. E infatti devono essere continuati perché lui, una settimana dopo la riconciliazione, in un pomeriggio nebbioso, ha lasciato un biglietto con scritto “Perdonatemi” sul tavolo della cucina, e la testa sui binari della ferrovia che gli corre dietro casa.
Si fa presto ad assolvere, ma adesso sono io che non dormo più. Ogni notte sogno il vecchio che, con la testa in mano, mi insegue piangendo tra i banchi della chiesa.
Paolo Leibanti nasce in mezzo al Veneto in quello che sarebbe stato il giorno del 136° compleanno di Mark Twain. Appassionato di letteratura, per prudenza sceglie di studiare Economia a Ca’ Foscari. Nel 1996 pubblica su una rivista il primo racconto intitolato “Il primo”. Dopo aver seguito corsi di scrittura e ottenuto qualche riconoscimento per racconti brevi, ora non scrive quasi più, ma evita di intitolare qualcosa “L’ultimo”.