Un racconto di Pasquale Innato
Numero di battute: 2490
Stavo fissando la viva pelle umida del mio ginocchio appena sbucciato, quando mio padre mi ha preso per un braccio, ha spazzolato via la polvere grigia con le mani dalle mie gambe e mi ha portato dal barbiere. A quella età avevo una bella chioma ricciolina.
In piedi davanti allo specchio, la testa all’altezza della spalliera della poltrona girevole, ammiravo i capelli disordinati eppure così esatti. Dopo qualche istante, però, mi ha assalito un timore, uno spavento quasi, appena mi sono reso conto che in una manciata di minuti avrei perso quella stessa chioma in favore di un taglio più serio, più garbato, infine, più liscio. Mi sono voltato di scatto verso mio padre che si era seduto dietro di me e mi stava osservando da diversi minuti, forse un secolo.
«Be’, hai deciso come li vuoi?»
Ho scosso la testa; non li volevo in nessun modo. Si è alzato, lo vedevo riflesso nello specchio, è venuto dietro di me ed ha appoggiato le labbra alla mia tempia.
«Fatti fare un bel taglio fresco!»
«Be’, hai deciso come li vuoi?»
Quell’aggettivo mi ha perseguitato per anni, dopo quella prima volta. Un taglio fresco, cosa vuol dire un taglio fresco? Credo di aver sempre saputo, pur senza dichiararlo esplicitamente, che mio padre volesse esprimere l’esigenza di un taglio sufficientemente corto da poter consentire il passaggio di un’aria di condizionamento capace di abbassare la temperatura della mia testa persino sotto il sole di luglio. Da quella volta in poi, in qualsiasi posto fossi e qualsiasi età avessi, mio padre non ha mai smesso di chiedermi, dopo l’appuntamento dal barbiere, se il taglio che avevo deciso fosse effettivamente un taglio fresco. Possibile però solo tra maggio e agosto: al di fuori di questa quaterna soleggiata, il taglio di capelli, semplicemente, non esisteva.
Ha accarezzato una ciocca che aveva preso tra le dita ed era tornato a sedersi. Il barbiere quindi mi ha esortato ad accomodarmi, come un signorotto locale a cui i servigi cominciavano a essere dovuti e mi ha avvolto nel telo; poi risollecitava la domanda.
«Come li facciamo?»
Con la coda dell’occhio, allo specchio, ho tentato di nuovo di rivolgermi a mio padre, che però aveva già raccolto un rotocalco dal tavolino e aveva cominciato a sfogliarlo. Allora accigliato, sono tornato con gli occhi al barbiere, ed esitante gli ho meccanicamente detto:
«Un taglio fresco?»
Non so se è perché papà aveva sentito, o se sulla rivista che leggeva aveva trovato qualcosa di buffo, ma in quel momento un cenno di sorriso è comparso sul suo volto.
Pasquale Innato è nato a Taranto nel 1991. Vive e lavora a Milano e appena possibile, scrive. Nel 2016 ha ricevuto il Premio Estense Digital. Ama Gadda perché era ingegnere (come lui) e scrittore (come vorrebbe essere); critica tutto e tutti.